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Il viaggio a Firenze. L’economia civile come casa comune

Ci sono viaggi che non si fanno per raggiungere una meta, ma per tornare a respirare un’idea. Firenze, nei giorni del Festival Nazionale dell’Economia Civile 2025, è stata per me questo: un ritorno a casa, nel senso più profondo del termine. Dal 3 al 5 ottobre ho partecipato a uno degli appuntamenti più significativi dell’anno, un luogo dove pensiero ed esperienza, economia e umanità si incontrano senza barriere. In quei giorni, nel cuore del Palazzo Vecchio, ho sentito che l’economia civile non è solo una visione teorica, ma un modo di stare al mondo. È una grammatica della reciprocità, una lingua comune che tiene insieme le differenze.

Appena entrato nel Salone dei Cinquecento, ho percepito qualcosa di familiare: un’energia composta, fatta di sguardi che si riconoscono, di voci che non competono ma si ascoltano. Ho pensato a quanto sia raro, oggi, trovare spazi pubblici capaci di far dialogare economia, cultura e spiritualità civile. Ogni intervento, ogni applauso, ogni silenzio sembrava dire che la comunità non è un concetto astratto, ma un lavoro quotidiano. In quei corridoi, tra studenti, economisti, giornalisti, cooperatori e amministratori, prendeva forma un’idea semplice ma rivoluzionaria: nessun cambiamento è possibile senza una comunità che lo sostenga.

Durante la prima giornata ho seguito con particolare interesse la sessione “Prendersi cura della democrazia. Il nuovo ruolo per l’Europa”. Sul palco si sono alternati Augusto Dell’Erba, presidente di Federcasse, Rossella Miccio, presidente di Emergency, e Giuseppe Guerini, presidente di Cooperatives Europe. Tre voci diverse ma unite da una convinzione comune: la democrazia non è un bene ereditato, è un bene da rigenerare ogni giorno. E per farlo servono legami di fiducia, reti di prossimità, economie della cura. Ascoltandoli, ho pensato a quante volte, nei miei incontri lungo Il viaggio nella cooperazione, ho ritrovato questa stessa energia: nei ragazzi di una cooperativa agricola di comunità, nelle donne che gestiscono servizi di assistenza, nei piccoli comuni che sperimentano nuove forme di economia mutualistica. Tutti, a modo loro, artigiani della democrazia.

Nel pomeriggio, la parola “rigenerazione” ha attraversato i dialoghi come un filo rosso. Maurizio GardiniGiorgio De Rita e Gabriele Sepio hanno ricordato che l’economia sociale non è un settore, ma una visione dell’economia come infrastruttura di bene comune. Dove il profitto è un mezzo, non un fine. Dove la competitività non cancella la solidarietà, ma la rafforza. Mi è tornata in mente una frase di Luigino Bruni, tra i fondatori della Scuola di Economia Civile: “L’economia civile non è un’economia gentile, è un’economia esigente, perché chiede responsabilità e reciprocità”. In quelle parole ho ritrovato la sostanza del mio viaggio: raccontare un’Italia che resiste, che innova e che costruisce futuro nonostante tutto.

Il secondo giorno si è aperto con la presentazione del Rapporto “Ben Vivere e Generatività dei Territori”, curato da NeXt Economia. Una ricerca che misura non solo la crescita economica, ma la capacità dei territori di far nascere vita, relazioni, speranza. È un modo diverso di guardare lo sviluppo: non più la somma dei beni prodotti, ma la qualità delle relazioni generate. Ascoltando Sergio GattiStefano Zamagni e Paola Galgani, ho pensato alla Basilicata, ai suoi paesi, alle energie che spesso non finiscono nelle statistiche ma che animano le comunità: cooperative che ridanno senso al lavoro, amministrazioni che investono sulla partecipazione, università che si aprono alla cittadinanza. È questo, in fondo, il significato di ben vivere: vivere bene insieme.

Subito dopo, un altro tema ha catturato la mia attenzione: l’intelligenza artificiale e relazionale. Ne hanno parlato Nando Pagnoncelli e Stefano Quintarelli, due protagonisti di un dibattito che non può più essere rimandato. La domanda è semplice ma cruciale: come mantenere l’umano al centro in un mondo sempre più digitale? Ho sentito quella riflessione molto vicina al mio lavoro, soprattutto quando accompagno progetti che intrecciano tecnologia e comunità. L’innovazione, se non è relazionale, rischia di diventare sterile. Le macchine imparano dai dati, ma le persone crescono solo nelle relazioni. E la cooperazione, da questo punto di vista, è la prima scuola di intelligenza relazionale.

Il pomeriggio ha portato un’altra parola chiave: fiducia. Il dialogo “Risparmio e credito per la crescita delle comunità”, con Paolo GentiloniFerruccio De Bortoli ed Enrica Chiappero-Martinetti, ha mostrato come la finanza possa tornare ad essere strumento di coesione. Il credito cooperativo, in particolare, rappresenta ancora oggi un argine all’individualismo economico: una rete che tiene insieme i destini locali e la visione globale. Ho ripensato al progetto BCC Basilicata, con cui collaboro: un’esperienza che dimostra come la mutualità possa diventare politica economica. Dove il denaro non divide, ma unisce. Dove il valore non si misura solo in bilanci, ma in relazioni restituite ai territori.

Ogni sera Firenze cambiava volto. Il Festival diventava piazza: la Loggia dei Lanzi si illuminava di colori, la musica del Maggio Musicale Fiorentino risuonava tra le pietre antiche, e le parole del giorno si trasformavano in conversazioni lente, senza ruoli né formalità. È in quei momenti che ho sentito la forza più autentica dell’economia civile: la capacità di tenere insieme leggerezza e profondità, etica e bellezza, politica e umanità. Ho conosciuto giovani cooperatori, amministratori locali, studenti, giornalisti. Tutti con la stessa convinzione negli occhi: che la gentilezza può essere una forma di rivoluzione.

L’ultima giornata, domenica 5 ottobre, si è aperta con il dialogo “Benessere oltre il PIL”, con Kaushik BasuMarco Venturelli e Nicola Perini. Le loro parole mi hanno riportato a una delle questioni centrali del mio viaggio: come misurare ciò che davvero conta? Le comunità che ho incontrato in questi anni hanno già risposto, senza saperlo: si misura il benessere quando una persona trova il suo posto nel mondo, quando un giovane resta perché sente che lì può costruire il futuro, quando un’impresa restituisce valore alla terra e alle persone. L’economia civile non rifiuta il mercato, ma lo umanizza; non nega il profitto, ma lo orienta al bene comune.

Poi è arrivato il momento del Premio Comuni di Economia Civile e Amministrazione Condivisa, che ha portato sul palco sindaci e dirigenti locali, esempi di una pubblica amministrazione che non teme di condividere potere e responsabilità. È stato uno dei momenti più belli: vedere amministratori e cittadini insieme, raccontare esperienze in cui la partecipazione non è uno slogan ma un metodo. Ho pensato ai processi che stiamo costruendo in Basilicata, ai patti territoriali, alle coprogettazioni, alle leggi regionali che mettono al centro i giovani e la sostenibilità generazionale. Tutto si tiene, come in un grande disegno collettivo.

Il Festival si è chiuso con un incontro dal titolo “Democrazia è partecipAzione”, condotto da giovani e organizzazioni giovanili. Guardandoli presentare le loro proposte, ho avvertito una sensazione di continuità: era come se i semi piantati negli anni da tante esperienze di cittadinanza attiva stessero finalmente germogliando. Ho pensato a Potenza Città Italiana dei Giovani 2024, al cammino di consapevolezza che ha portato tanti ragazzi a sentirsi parte di un progetto più grande. La democrazia, come la cooperazione, è un verbo collettivo: funziona solo se la si coniuga insieme.

Lasciare Firenze è stato difficile. Non per nostalgia, ma perché in quei giorni ho sentito che il futuro, se lo vogliamo davvero costruire, è già cominciato. È nelle mani di chi lavora in silenzio, di chi cura la terra e le persone, di chi educa e forma, di chi crede che la gentilezza sia una forma di competenza civile. Tornando verso casa, ho ripensato alle parole di Leonardo Becchetti, direttore del Festival: “La democrazia sopravvive solo se impariamo a prenderci cura gli uni degli altri.”
Forse è questa la vera lezione del Festival, e anche del mio viaggio: prendersi cura come atto politico, come gesto economico, come promessa sociale.

Oggi, ripensando a Firenze, so che non stiamo solo raccontando la cooperazione: la stiamo vivendo, giorno dopo giorno, come una scelta di campo, come una forma di resistenza gentile. L’economia civile è questo: un’economia che non divide ma unisce, che non produce solo beni ma relazioni, che non accumula ma restituisce. È, in fondo, una dichiarazione d’amore verso la vita in comune.

E il mio viaggio nella cooperazione continua, perché ogni volta che incontro storie come queste capisco che l’Italia civile, quella che costruisce dal basso, esiste davvero. Non fa rumore, ma cambia le cose.

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