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L’Europa che impara dall’Italia, l’Italia che impara dal mondo: la forza di un ponte

Ci sono luoghi in cui le parole “cooperazione” ed “Europa” smettono di essere categorie economiche e tornano ad essere carne viva, radici, futuro condiviso. Uno di questi luoghi è il Festival dell’Economia Civile: uno spazio dove non si va soltanto ad “ascoltare”, ma a vedere come l’idea di bene comune si muove, evolve e prende forma nelle storie delle persone. È lì che ti accorgi che la cooperazione non è una tradizione da custodire, ma una traiettoria da continuare: un ponte che tiene insieme ciò che rischierebbe di restare distante — generazioni, territori, istituzioni, comunità.

Camminando tra i chiostri e le sale del festival, mentre l’eco degli incontri rimbalza tra chi già coopera e chi inizia appena a domandarsi come entrarci, è impossibile non avvertire che oggi la parola “ponte” non è una metafora poetica: è un bisogno strutturale. L’Europa attraversa un tempo in cui molte delle vecchie categorie — pubblico/privato, impresa/solidarietà, lavoro/partecipazione — sono state superate dai fatti. La cooperazione, invece, è uno dei pochi modelli che, senza proclamarsi rivoluzionario, sta già offrendo una soluzione concreta: tiene insieme ciò che altrove si divide. E lo fa senza slogan, ma attraverso processi lenti, generativi, territoriali.

È in questa cornice che nasce la domanda posta a Giuseppe Guerini, Presidente di Cooperatives Europe : cosa può imparare la cooperazione italiana dall’Europa, e cosa può offrire la nostra esperienza al mondo cooperativo internazionale? La domanda non riguarda il passato, ma l’orizzonte: non “da dove veniamo”, ma “che cosa stiamo diventando”.

Per comprendere davvero questa reciprocità bisogna prima riconoscere che non esiste “un” modello cooperativo europeo. Ne esistono molti, e sono tutti figli di contesti diversi. Nei Paesi nordici la cooperazione è sinonimo di governance trasparente e partecipazione digitale: piattaforme che permettono ai soci di deliberare, proporre e monitorare decisioni in tempo reale. In Spagna e Portogallo, la cooperazione ha sviluppato forti modelli educativi intergenerazionali: scuole in cui i giovani imparano non soltanto un mestiere, ma una cultura organizzativa basata su corresponsabilità e comunità. In Germania e Danimarca la frontiera più avanzata è quella energetica: cooperative che producono energia rinnovabile, ridistribuendo benefici economici ai soci e alle comunità locali. Nel Benelux e in Scandinavia, la governance è orientata a una trasparenza radicale: i soci hanno un ruolo reale nei processi decisionali, non formale.

E l’Italia? Il contributo italiano non è tanto in ciò che la cooperazione fa, ma in come lo fa: radicamento territoriale, cultura della prossimità, capacità di trasformare relazioni in infrastrutture sociali. In tante parti d’Europa la cooperazione è “strumento”; in Italia è “tessuto”. È questa la differenza: da noi la cooperativa non è un ente che entra nel territorio, ma un soggetto che nasce dal territorio. Ha il profilo delle sue persone, le fatiche delle sue strade, gli accenti dei suoi paesi.

È proprio questa specificità che oggi l’Europa guarda con crescente attenzione: il modo in cui le cooperative italiane riescono a prendersi cura di comunità fragili, a tenere insieme generazioni, a trasformare disuguaglianze in partecipazione, a convertire bisogni in nuova economia. L’Italia non esporta solo organizzazione, ma senso: la convinzione che una comunità non è “l’insieme delle persone che abitano in un luogo”, ma “l’insieme delle persone che scelgono di restare in relazione”.

In questo scambio reciproco sta la vera frontiera europea: da un lato l’Italia può imparare la digitalizzazione partecipativa, la scalabilità dei processi, la progettazione europea intesa non come finanziamento ma come politica comune; dall’altro lato l’Europa può apprendere la dimensione culturale della cooperazione italiana, il suo essere prima di tutto relazione, inclusione e costruzione paziente di legami.

Ma questo ponte non esiste senza le nuove generazioni. Le cooperative europee più avanzate lo hanno capito: i giovani non entrano nella cooperazione perché chiamati a “succedere”, ma perché riconoscono in essa un luogo in cui esiste ancora un “noi”. Ciò che cercano non è semplicemente lavoro, ma senso nel lavoro; non rappresentanza, ma responsabilità; non un modello da ereditare, ma un modello da co-costruire.

E qui emerge il cuore della questione: la cooperazione può essere un ponte solo se qualcuno decide di attraversarlo. Nessun ponte ha senso se resta vuoto. Essere ponte tra generazioni non significa “trasmettere un testimone”, ma creare le condizioni perché quel testimone sia desiderato, condiviso e nuovamente trasformato.

L’immagine più potente è forse questa: l’Europa costruisce strumenti, l’Italia coltiva legami. Quando queste due dimensioni si incontrano, nasce una cooperazione capace non solo di reggere il presente, ma di rigenerare il futuro. Non come risposta emergenziale, ma come forma civile di convivenza.

E allora la domanda vera non è più “cosa l’Italia può offrire o imparare”, ma chi ha il coraggio di assumersi il compito della continuità. Perché la cooperazione o è generativa, oppure non è cooperazione. E non esiste generatività senza responsabilità: quella di chi decide di restare architetto del legame sociale, anche quando sarebbe più semplice fermarsi sulla riva. Il ponte esiste per essere attraversato. Ed è nella scelta di farlo che la cooperazione dimostra, ancora una volta, di essere più che un modello economico: una forma di futuro possibile.

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